La birra non è solo una delle bevande più antiche del mondo, ma anche una fonte inesauribile di racconti e leggende.
Sin dall’alba della civiltà l’uomo ha attribuito a questa bevanda fermentata un’aura quasi magica, intrecciando la sua storia a miti, rituali e credenze popolari.
Dalle antiche divinità sumere e egizie che proteggevano l’arte brassicola alle storie medievali di monaci e re appassionati di birra, fino ad arrivare alle moderne leggende metropolitane sul colore o sugli effetti della “bionda”, ogni epoca ha contribuito ad arricchire il folklore legato alla birra.
Questo affascinante viaggio tra mito e realtà ci permette di scoprire come la birra sia molto più di una semplice bevanda: è un simbolo culturale intorno a cui fioriscono aneddoti curiosi, tradizioni secolari e misteri intriganti.
Nel corso di questo articolo esploreremo alcune delle leggende sulla birra più significative attraverso i secoli.
Dalle storie sacre dell’antichità alle leggende medievali, dalle credenze popolari legate alla produzione sino ai racconti sull’origine di celebri stili birrari, ci addentreremo nei misteri che rendono la cultura della birra così ricca e affascinante.
Preparatevi a scoprire divinità protettrici della birra, santi e diavoli birrai, streghe dal cappello a punta con un calderone pieno di luppolo, e miti moderni da sfatare.
Ogni vicenda sarà l’occasione per conoscere meglio l’universo della birra artigianale – un mondo in cui passato e presente si incontrano, e dove la tradizione incontra l’innovazione (come avviene nelle creazioni di molti birrifici odierni).
In questo post
- Leggende antiche sulla birra
- Santi, monaci e re: leggende medievali della birra
- Misteri e superstizioni nell’arte brassicola
- Leggende sulla nascita di alcuni stili di birra
- Miti e leggende moderne sulla birra
- Conclusioni
Leggende antiche sulla birra
Le prime civiltà umane hanno lasciato testimonianze di leggende antiche sulla birra, segno di quanto questa bevanda fosse ritenuta speciale e quasi sacra.
Nella Mesopotamia di cinquemila anni fa, ad esempio, la birra era considerata un dono divino: i Sumeri veneravano Ninkasi, la dea della birra, alla quale dedicarono persino un inno.
Questo antichissimo canto – noto come Inno a Ninkasi – celebrava la preparazione della birra passo per passo in forma poetica, indicando come la signora che prepara la birra insegni agli uomini l’arte di produrre la bevanda fermentata.
La ricetta sumera era molto diversa da quelle odierne: si otteneva facendo fermentare pani d’orzo in acqua con aromi di datteri e spezie, ottenendo un liquido denso e nutriente.
I Sumeri consumavano la loro birra con cannucce, per filtrare i residui solidi, e consideravano l’effervescenza della fermentazione un segno del favore divino (Storia della birra – Wikipedia).
In un mondo privo di conoscenze scientifiche, la trasformazione del malto in alcol era un mistero affascinante, spiegato attraverso il mito.
(Basti pensare che Ninkasi era figlia del dio dell’acqua Enki, a significare l’importanza dell’acqua pura nella birrificazione (Ninkasi – Wikipedia)).
Ancora oggi questa antica divinità è ricordata dagli appassionati, e il suo nome vive in birrifici e marchi dedicati.
(Curiosità: alcune birrerie artigianali hanno tratto ispirazione da Ninkasi per i loro prodotti, a riprova di quanto queste leggende siano radicate nella cultura brassicola.) In definitiva, dalle tavole di argilla sumere emergono le prime “ricette” e i primi racconti fantastici sulla birra, a testimonianza del legame profondo tra l’uomo, la sua birra artigianale primordiale e il divino (Storia della birra – Wikipedia).
Anche nell’antico Egitto troviamo racconti sorprendenti che hanno per protagonista la birra.
La birra egizia era prodotta su larga scala e consumata quotidianamente: era così importante che veniva utilizzata come paga per gli operai (ad esempio, i costruttori delle piramidi ricevevano razioni di birra per il loro sostentamento).
Ma oltre alla vita quotidiana, la birra entrò anche nella sfera mitologica.
Sekhmet, la dea leonessa della guerra, secondo una leggenda rischiò di distruggere l’umanità nella furia della sua collera.
Il dio Ra, per fermarla, ricorse a un astuto stratagemma: fece preparare enormi quantità di birra colorata di rosso (mescolata con succo di melagrana) e la fece versare sul percorso della dea.
Sekhmet, scambiando quella distesa rossa per sangue, bevve a volontà fino ad ubriacarsi e si addormentò profondamente, risparmiando così il genere umano (Beer in Ancient Egypt – World History Encyclopedia) (Beer in Ancient Egypt – World History Encyclopedia).
In questa antica leggenda sulla birra egiziana, la birra diventa letteralmente la salvezza del mondo: un filtro magico capace di placare l’ira divina.
Il racconto, oltre a sottolineare l’astuzia degli dei, mostra quanto gli Egizi tenessero in considerazione la birra – una bevanda che essi stessi chiamavano “pane liquido” per il suo valore nutritivo.
Non a caso, la birra era dedicata anche alla dea Hathor (divinità della gioia e dell’ebbrezza) e si celebravano festival annuali durante i quali i fedeli bevevano grandi quantità di birra in onore della dea, rievocando proprio l’episodio di Sekhmet.
Questo connubio di sacro e profano attorno a un semplice fermentato d’orzo rende bene l’idea di quanto la birra fosse radicata nella cultura di quelle civiltà.
Attraversando altre culture antiche, troviamo ulteriori esempi di miti birrari.
Nella tradizione nordica, ad esempio, si narrava di Aegir, un gigante padrone del mare che preparava birra per gli dèi: nelle saghe vichinghe Aegir ospitava banchetti in cui la birra fluiva a fiumi in enormi calderoni magici.
In Europa settentrionale la birra era quindi presente anche nel mito germanico e celtico, spesso associata all’ospitalità e alla festa.
Un caso emblematico dell’importanza simbolica della birra nel folklore è il Kalevala, il grande poema epico finlandese (raccolto in forma scritta nell’Ottocento ma basato su tradizioni orali antichissime).
Nel Kalevala la preparazione della birra per un banchetto di nozze occupa più versi della stessa creazione del mondo (Storia della birra – Wikipedia).
Si racconta come una fanciulla, a corto di ingredienti per far fermentare la bevanda, inviò un piccolo ape a cercare il necessario: l’ape volò in un prato fiorito e portò con sé il polline e il miele, consentendo finalmente alla birra di prendere vita con una fermentazione vigorosa.
Questo curioso aneddoto poetico sottolinea l’importanza della birra come elemento di coesione sociale e rituale: produrre una buona birra era considerato un atto così significativo da meritare una dettagliata descrizione epica.
Ancora una volta la magia della fermentazione veniva spiegata con l’intervento divino (l’ape messaggera inviata dal cielo), a dimostrazione di quanto misteriosa apparisse, agli occhi dei nostri antenati, la trasformazione del mosto in una bevanda inebriante e gioiosa.
Vale la pena notare che le antiche birre differivano molto da quelle che conosciamo oggi.
Gli antichi non usavano il luppolo – ingrediente che arriverà solo molti secoli dopo – e aromatizzavano la birra con erbe, spezie o frutta.
Si può dire che quelle bevande ancestrali fossero le progenitrici delle moderne birre artigianali (per quanto rudimentali): già allora esisteva una ricca varietà di sapori e ricette locali, ciascuna con la sua piccola mitologia.
Con il passare del tempo, l’arte birraria evolse e si diffuse: i segreti della fermentazione si tramandarono e migliorarono, e nuove leggende sorsero man mano che la birra conquistava nuove terre.
Un cambiamento cruciale avvenne nel Medioevo, quando in Europa si introdusse il luppolo come conservante e aromatizzante: questo segnò la nascita di birre più simili a quelle odierne.
Ma con il luppolo arrivarono anche nuovi racconti e figure leggendarie, dai monaci ai sovrani.
È il momento di addentrarci nelle storie birrarie dell’epoca medievale, dove realtà storica e fantasia popolare si mescolano proprio come malto e acqua in un tino di ammostamento.
(Nota: la birra sumera e quella egizia erano molto diverse dalle odierne birre artigianali, ma ne hanno gettato le basi culturali.
Ancora oggi, alcuni birrifici sperimentano ricette ispirate a quelle antiche, a metà fra archeologia e passione brassicola.)
Santi, monaci e re: leggende medievali della birra
Con il Medioevo, la birra diventa protagonista di nuove leggende nel cuore dell’Europa.
In un’epoca in cui l’acqua potabile spesso non era sicura, la birra – grazie alla bollitura del mosto – risultava più salubre e divenne la bevanda quotidiana di molti.
Proprio attorno alla birra fiorirono miti medievali che coinvolgono santi protettori, monaci produttori e persino figure leggendarie come re e diavoli.
I monasteri medievali, in particolare, furono veri custodi dell’arte birraria: i monaci affinavano le tecniche di produzione e inventavano stili destinati a durare nei secoli (le odierne birre trappiste ne sono l’eredità più famosa).
È naturale, dunque, che attorno ai birrifici monastici sorgessero storie curiose e a volte miracolose, tramandate di abazia in abazia e tra il popolo devoto alla bionda.
Una delle figure più note è Sant’Arnoldo (o Arnolfo) di Soissons, vissuto nell’XI secolo in Belgio, oggi venerato come patrono dei birrai.
La leggenda narra che durante un’epidemia (forse di peste o dissenteria) Arnoldo, abate di un monastero, esortò gli abitanti del suo villaggio a non bere acqua contaminata dal morbo, ma a bere solo birra prodotta dall’abbazia.
All’epoca non si conosceva la microbiologia, ma Arnoldo aveva osservato empiricamente che chi beveva birra – bollita e fermentata – si ammalava di meno rispetto a chi attingeva acqua dai pozzi insalubri.
Obbedendo al santo uomo, la popolazione si dissetò con la birra dell’abbazia e molti furono risparmiati dall’epidemia.
Questo episodio, tramandato come miracoloso, contribuì a consolidare la fama di Sant’Arnoldo come protettore dei mastri birrai e “guaritore” grazie alla birra.
Un altro racconto leggendario attribuito a Sant’Arnolfo (forse una figura distinta, Arnolfo di Metz del VII secolo, ma nella tradizione popolare i due si confondono) riguarda il cosiddetto miracolo della birra: si racconta che, in occasione della traslazione della salma del santo, i fedeli in processione soffrissero il caldo e la sete, ma una singola botte di birra bastò miracolosamente a riempire i boccali di tutti senza mai svuotarsi.
Questo prodigio fu visto come un segno tangibile della benedizione del santo e dell’amore divino che si manifesta persino attraverso un boccale di birra.
Al di là della veridicità storica, queste storie riflettono una realtà: nei monasteri medievali la birra era al centro della vita comunitaria, considerata un alimento sicuro e nutriente, tanto da essere definita “pane liquido”.
I monaci documentarono ricette, innovarono metodi e diffusero la cultura birraria lungo le rotte di pellegrinaggio e nei feudi, gettando le basi di molte tradizioni brassicole europee.
La dimensione spirituale e quella materiale si fondevano dunque attorno al calice di birra: bere con moderazione la bevanda prodotta in abbazia era un modo per celebrare la vita in comunità in salute, e allo stesso tempo – perché no – per onorare il santo patrono.
(Ancora oggi, alcune birre belghe d’abbazia recano immagini di santi o riferimenti religiosi in omaggio a questa eredità: ad esempio, la famosa Leffe raffigura un abate sull’etichetta.)
Non solo i monaci e i santi popolano le leggende medievali della birra: accanto a loro troviamo anche figure profane ma dal sapore mitico.
Una di queste è Gambrinus, celebrato come il leggendario Re della Birra.
Il nome Gambrinus compare in storie diffuse nelle Fiandre e in Germania a partire dal tardo Medioevo: è ritratto spesso come un uomo corpulento e gioviale, con una corona in testa e un boccale traboccante in mano.
Le origini di Gambrinus sono avvolte nel mistero e nelle contraddizioni.
Secondo una popolare leggenda fiamminga, Gambrinus era un umile giovane che, per conquistare l’amore di una fanciulla, arrivò a stringere un patto col diavolo: in cambio della propria anima, il demonio gli insegnò l’arte di produrre una birra eccezionalmente buona (Gambrinus, che storia: il Dio della Birra e un patto col diavolo ).
Grazie a questa conoscenza “infernale”, Gambrinus divenne ricchissimo e famoso, al punto da rifiutare qualsiasi titolo nobiliare proponendosi egli stesso come Re della Birra (Gambrinus, che storia: il Dio della Birra e un patto col diavolo ).
Un’altra versione ancora racconta che Gambrinus imparò a brassare direttamente dal dio egizio Osiride (a sottolineare l’antichità quasi arcana della sua sapienza), mentre una variante più romantica vuole che il nostro eroe avesse chiesto al diavolo di aiutarlo a dimenticare un amore non corrisposto: Satana lo accontentò facendogli dono della birra, che alleviò le sue pene e gli diede gloria imperitura (Gambrinus: Man, Myth, Legend – American Homebrewers Association).
Dietro la maschera leggendaria di Gambrinus si cela probabilmente una figura storica: molti identificano Gambrinus con il duca Giovanni I di Brabante (Jan Primus, 1251-1294), noto estimatore di birra, oppure con Jan Kambrinus, un birraio del Trecento.
Quale che sia la verità, Gambrinus è entrato nell’immaginario collettivo come simbolo stesso della birra: ancora oggi il suo nome battezza birrerie e marchi, e nei paesi di lingua tedesca e fiamminga si narrano aneddoti sul suo conto.
Si dice, ad esempio, che abbia inventato stili birrari tipici del Belgio: un racconto popolare sostiene che fu Gambrinus a creare per primo la birra lambic e la birra faro – tipiche di Bruxelles – grazie alla sua maestria (queste bevande, prodotte con fermentazione spontanea, rientrano oggi nella categoria delle birre acide, ulteriore conferma di come la leggenda e la storia si sovrappongano nel caso di Gambrinus).
Altre storie lo dipingono mentre sfida chiunque a gare di bevute di birra o suona il violino facendo danzare i boccali da soli.
In ogni racconto, Gambrinus incarna lo spirito goliardico, conviviale e un po’ magico legato al consumo di birra nelle taverne medievali: un patrimonio di fantasia popolare che accompagna la diffusione della bevanda in Europa.
Le leggende medievali sulla birra non finiscono qui.
Un’altra famosa vicenda riguarda i monaci di San Francesco di Paola (noti come Paolotti o Minimi) nel monastero di Neudeck ob der Au, a Monaco di Baviera, durante il XVII secolo.
Questi monaci producevano una birra fortissima e nutriente, la cui ricetta segreta dava origine a un nettare ambrato ricco di malto e con un tenore alcolico elevato.
La birra veniva consumata soprattutto nel periodo di Quaresima, quando ai frati era vietato il cibo solido: grazie a quel liquido pane potevano sostenersi durante il digiuno.
La leggenda narra che, preoccupati che la loro birra quaresimale fosse troppo buona e potenzialmente peccaminosa per essere bevuta in periodo di penitenza, i frati decisero di inviarne un barile direttamente a Roma, al Papa, per chiedere un giudizio sulla sua appropriatezza.
Il lungo viaggio verso l’Italia, però, deteriorò il prodotto: giunta a destinazione, la birra era acida e imbevibile.
Sua Santità, ignaro del gusto originario, assaggiandola la trovò talmente sgradevole da considerarla una degna mortificazione per i monaci: concesse dunque ai frati di continuare a berla durante la Quaresima, ritenendo che un simile “sacrificio” li avrebbe avvicinati a Dio.
I monaci, felicissimi, poterono così continuare a godere indisturbati della loro deliziosa birra, convinti di aver persino ottenuto la benedizione papale! Da questa storia trae origine uno degli stili birrari più celebri di Monaco: la Doppelbock, così chiamata in seguito (il primo esempio fu battezzato Salvator, “Salvatore”, nome che ancora oggi molte Doppelbock imitano).
Ancora oggi, bevendo una corposa bock bavarese, si ricorda quel curioso aneddoto: una birra così buona da ingannare persino il Papa.
Se volete approfondire caratteristiche e storia di queste birre forti monacali, potete leggere il nostro articolo dedicato alla birra Bock, che tratta anche delle varianti doppio malto nate in ambito religioso.
Tra santi che compiono miracoli con il malto, monaci astuti e re leggendari che brindano con il diavolo, il Medioevo ci ha lasciato un ricchissimo immaginario legato alla birra.
Queste storie, pur nella loro fantasia, contengono spesso un nucleo di verità storica: riflettono il ruolo centrale della birra nella società dell’epoca, l’importanza della sua produzione (specie artigianale, ante litteram, nei conventi) e la gioia comunitaria del consumo.
La birra era nutrimento, medicina, fonte di reddito e piacere conviviale – non stupisce che la fantasia popolare la elevasse a protagonista di racconti miracolosi e fiabeschi.
Ancora oggi molte birrerie artigianali valorizzano questo legame con la storia: basti pensare a etichette che richiamano motti antichi o leggende locali.
Ad Meliora e Turris Lapidea, ad esempio, sono nomi di birre che riecheggiano frasi latine e riferimenti storici del territorio romano (Birra Artigianale Romana: Cos’è, Caratteristiche, Storia ed Esempi – La Casetta Craft Beer Crew), aggiungendo fascino al prodotto e collegandolo idealmente alle tradizioni del passato.
Così, nel sollevare un boccale, possiamo immaginare di brindare insieme a monaci, re e santi di tempi lontani, uniti dalla comune passione per la birra.
Misteri e superstizioni nell’arte brassicola
Per molti secoli l’atto di fare birra è rimasto avvolto dal mistero.
Prima che la scienza spiegasse i processi biochimici, i mastri birrai si affidavano all’esperienza, alla tradizione e – perché no – a un pizzico di magia.
La fermentazione in particolare era un fenomeno quasi mistico: il mosto dolce, dopo alcuni giorni nella botte, iniziava a ribollire e a trasformarsi in una bevanda frizzante e inebriante senza che nessuno sapesse realmente spiegare il perché.
Si parlava del “spirito della birra” o del tocco degli dèi.
Alcuni antichi birrai conservavano un po’ del sedimento delle cotte precedenti per avviare la successiva produzione, notando che così la birra riusciva meglio – ma ignoravano che quel residuo conteneva il lievito.
Questo fungo microscopico sarebbe stato identificato solo nel XIX secolo, grazie a Louis Pasteur, ma nel frattempo generazioni di birrai lo avevano inconsapevolmente venerato come una sorta di genius loci delle cantine.
Non a caso in inglese antico il lievito veniva chiamato Godisgood (“Dio è buono”), quasi fosse un ingrediente miracoloso.
Fu solo con il progresso scientifico che si comprese come funziona davvero la fermentazione alcolica e il ruolo fondamentale del lievito di birra – oggi selezionato e studiato nei minimi dettagli – dissolvendo finalmente quel velo di mistero che circondava l’arte brassicola.
Tuttavia, prima di allora, la mancanza di spiegazioni scientifiche alimentò numerose superstizioni.
Ad esempio, in certe tradizioni si pensava che la birra fermentasse bene solo se il mastro birraio recitava preghiere particolari o formule segrete durante la cotta, oppure si riteneva che una birra potesse “morire” (andare a male) se qualcuno lanciava il malocchio sul fermentatore.
In alcuni villaggi si evitava che donne in determinate condizioni (come la gravidanza avanzata) partecipassero alla birrificazione, temendo che “disturbassero” gli spiriti del malto.
Sembrano concetti bizzarri oggigiorno, eppure erano credenze diffuse quando ogni fase della produzione aveva qualcosa di incontrollabile e arcano.
Una delle superstizioni più curiose – e affascinanti – legate alla birra riguarda l’origine dell’iconografia delle streghe.
Avete mai notato come la figura classica della strega abbia alcuni elementi che potrebbero richiamare il mondo della birra? Si è ipotizzato che molte caratteristiche della strega della tradizione popolare (il calderone ribollente, il cappello a punta, la scopa e il gatto nero) derivino in realtà dall’immagine delle birraie medievali.
Nel Medioevo e fino al Rinascimento, infatti, gran parte della produzione di birra casalinga e locale era affidata alle donne – chiamate alewives in Inghilterra – le quali spesso vendevano la birra in eccesso al pubblico.
Per farsi notare nei mercati affollati, queste mescitrici indossavano alti cappelli a punta facilmente individuabili dalla folla.
Utilizzavano grandi calderoni per bollire il malto (proprio come quelli raffigurati nelle fiabe accanto alle streghe) e mettevano fuori dalla porta di casa una scopa di saggina come segnale che la nuova cotta di birra era pronta e disponibile – un’insegna rustica, non molto diversa dall’insegna di un pub.
I gatti erano compagni frequenti di queste birraie perché tenevano lontani topi e parassiti dai sacchi di grano e orzo.
Purtroppo, con l’andar del tempo, soprattutto quando la produzione di birra divenne un’attività sempre più redditizia, la presenza di donne birraie iniziò a essere vista con sospetto: i concorrenti maschi e certe autorità non esitarono ad accusarle di stregoneria per estrometterle dal mercato della birra (Why Did Women Stop Dominating the Beer Industry? | Smithsonian) (Women used to dominate the beer industry—until the witch …).
Così l’immaginario collettivo finì per sovrapporre l’immagine dell’allegra birraia con quella più sinistra della strega.
Ovviamente si tratta di una teoria storica su cui gli studiosi discutono (non tutte le caratteristiche combaciano temporalmente), ma è indubbio che birra e magia abbiano condiviso alcuni simboli.
Pensateci: il calderone fumante poteva contenere una pozione magica… oppure una nuova cotturna di ale speziata! Del resto, prima che si conoscesse il luppolo, la birra europea era spesso aromatizzata con miscele di erbe chiamate gruit: ricette segrete di piante (achillea, rosmarino selvatico, bacche di ginepro e quant’altro) custodite gelosamente dai mastri birrai.
Questi infusi d’erbe conferivano sapori e proprietà peculiari alla birra, e la loro preparazione poteva sembrare un rito esoterico.
In fondo, cosa mancava a queste pozioni per essere scambiate per incantesimi? Solo la credenza popolare che vi aggiungesse un tocco di superstizione.
Non sorprende che unendo tutti questi elementi – cappelli a cono, gatti neri, scope sull’uscio e pentoloni ribollenti di erbe – sia nata l’idea che le prime “streghe” fossero in realtà donne che preparavano e vendevano birra.
Oggi possiamo sorridere di questo collegamento, ma esso ci ricorda anche un fatto storico importante: le donne ebbero un ruolo fondamentale nell’evoluzione dell’arte brassicola, finché dinamiche sociali avverse (come i processi per stregoneria e l’industrializzazione) le allontanarono dal settore.
Per fortuna, nel mondo della birra artigianale contemporanea le birraie stanno tornando protagoniste, riscattando quella tradizione interrotta.
In definitiva, le superstizioni e i misteri legati alla birra sono parte integrante del suo percorso nella storia.
Oggi conosciamo le spiegazioni scientifiche di fermentazione, lievito e maturazione, eppure la birra conserva ancora qualcosa di magico nel modo in cui porta le persone a condividere storie e leggende.
Dal mito del mosto incantato alle streghe birraie, questi racconti aggiungono colore e fascino all’esperienza della birra.
E quando brindiamo in una vecchia taverna dall’insegna scricchiolante, con i boccali che tintinnano alla luce fioca, possiamo quasi percepire l’eco di quei tempi antichi in cui ogni pinta era un piccolo miracolo e ogni birraio – o birraia – un po’ alchimista, un po’ narratore di storie.
Leggende sulla nascita di alcuni stili di birra
Non solo divinità e personaggi leggendari: anche molti stili di birra che conosciamo oggi portano con sé aneddoti e racconti quasi mitici sulle loro origini.
La storia della birra è costellata di episodi pittoreschi che spiegano (o talvolta romanzano) come certi tipi di birra siano nati.
In questa sezione faremo un piccolo viaggio tra le leggende birrarie legate alla creazione di quattro celebri stili: l’India Pale Ale nata per affrontare i mari, la Porter frutto dell’ingegno londinese, la Stout imperiale creata per una zarina e la Pilsner dorata che rivoluzionò il mondo birrario.
Questi racconti, a cavallo fra verità e mito, mostrano come dietro ogni pinta possa celarsi una storia appassionante.
La leggenda dell’India Pale Ale: la birra per l’Impero Indiano
Un esempio classico di leggenda sull’origine di uno stile è quello della India Pale Ale, spesso abbreviata IPA.
Oggi l’IPA è sinonimo di birra molto luppolata e aromatica, ma le sue radici risalgono all’epoca coloniale britannica.
La vicenda, a metà tra realtà storica e semplificazione popolare, è la seguente: nel Settecento l’Impero britannico aveva molti connazionali in India – funzionari, militari, mercanti – che soffrivano la lontananza anche in termini di abitudini alimentari, birra inclusa.
Si cercava quindi un modo per spedire birra dall’Inghilterra alle colonie in India, ma il viaggio in nave attraverso l’equatore, lungo mesi, rovinava facilmente il prodotto.
Nel 1780 circa un birraio londinese di nome George Hodgson, proprietario della Bow Brewery, elaborò una birra pale ale (chiara) con gradazione alcolica più elevata e massicciamente luppolata, sapendo che l’alcol e il luppolo sono conservanti naturali.
Questa birra, destinata al mercato indiano, riusciva a sopportare meglio il lungo viaggio per mare mantenendosi fresca e fragrante all’arrivo.
Nacque così – secondo la leggenda – la India Pale Ale.
In realtà, i documenti storici indicano che il termine IPA venne utilizzato solo a partire dagli anni 1830 e che già prima gli inglesi esportavano varie birre in India (anche porter), ma la versione romanzata attribuisce tutto il merito a Hodgson e alla sua ricetta.
Quel che è certo è che, con il tempo, la IPA divenne davvero popolare tra i sudditi dell’Impero e poi in patria, apprezzata per il gusto deciso e l’amaro rinfrescante del luppolo.
Ancora oggi, quando sorseggiamo una IPA carica di aromi agrumati o resinosi, possiamo ricordare quell’avventura ottocentesca: è come se in ogni sorso rivivessero le traversate oceaniche, le navi a vela cariche di botti e il sollievo di un colono inglese sotto il sole di Bombay che finalmente si gode la sua pinta dall’Inghilterra.
Approfondimenti su caratteristiche, ricetta e storia di questo stile si trovano nel nostro articolo dedicato alla birra IPA (India Pale Ale), dove scoprirete come l’IPA sia stata poi riscoperta e reinventata dai birrai artigianali di oggi in molte varianti.
La leggenda dell’IPA mostra insomma come la necessità (dissetare i coloni lontani) abbia stimolato l’ingegno birrario, dando vita a uno stile destinato a dominare la scena craft contemporanea.
Il mistero della Porter di Londra
Un altro stile carico di storia e miti è la Porter, la scura di Londra.
Siamo stavolta nell’Inghilterra del XVIII secolo, in piena Rivoluzione Industriale.
Londra era popolata di facchini, portuali, venditori ambulanti – una classe operaia dura al lavoro e assetata a fine giornata.
Prima dell’avvento della porter, era comune nei pub londinesi miscelare diversi tipi di birra: si racconta che i clienti chiedessero una mistura di tre birre differenti (una ale giovane, una ale vecchia molto forte e una birra più leggera), nota come “three threads”.
Questa usanza, però, era scomoda per i publican che dovevano spillare da tre botti per ogni pinta.
Secondo la leggenda, nel 1722 un birraio di nome Ralph Harwood ebbe l’idea geniale di produrre una birra che imitasse quel blend – forte, scura e dal gusto ricco – direttamente in un unico prodotto.
Nacque così la Porter, chiamata così proprio perché divenne subito la bevanda prediletta dei porters, i facchini di Londra.
La birra Porter era bruna scura, quasi nera, grazie all’uso di malti tostati, e aveva un corpo robusto che ricordava la “stout old ale” del mix originale.
Harwood la commercializzò come Entire (cioè “intera”, allusione al fatto che rimpiazzava l’intero mix) e ottenne un enorme successo: finalmente i lavoratori potevano ordinare direttamente una pinta già perfettamente bilanciata, ideale per ristorarsi dopo le fatiche quotidiane.
La porter dilagò a Londra e poi in Inghilterra, dando origine in seguito anche alla variante Stout Porter (da cui la “stout” moderna).
Questa è la versione popolare della storia.
In realtà alcuni storici della birra mettono in dubbio che Harwood abbia “inventato” da zero la porter: probabilmente lo stile evolvette gradualmente e il nome porter fu un’etichetta nata dal gergo comune più che dall’ufficio marketing di un singolo birraio.
Si sa però che entro la metà del Settecento la porter rappresentava la bevanda nazionale inglese, esportata persino oltremare in botti e protagonista di eventi particolari (come la tragica London Beer Flood del 1814, quando il crollo di una cisterna gigantesca di porter in una fabbrica causò un’inondazione di birra nelle strade, evento realmente documentato che però pare una storia uscita da un romanzo dickensiano).
Oggi la porter è considerata uno stile classico, e la sua genesi resta un mix di realtà e mito: è vero che semplificò il servizio nei pub e incontrò i gusti popolari, ma la figura di Harwood inventore unico è dibattuta.
Resta il fascino del racconto: pensare che la nostra pinta di porter affondi le radici in una sera del 1722, quando un birraio dal colpo di genio decise di accontentare con un solo prodotto le richieste di un’intera categoria di lavoratori.
Per approfondire le caratteristiche di questa birra scura intramontabile e le curiosità storiche legate ad essa, potete leggere il nostro articolo sulla birra Porter, che vi guiderà in un viaggio tra le pinte fumose delle taverne londinesi del XVIII secolo.
La stout imperiale russa e la zarina Caterina
Spingendoci qualche decennio più avanti e qualche migliaio di chilometri più a est, incontriamo la leggenda della Imperial Stout russa.
Questa storia ci porta alla corte della zarina Caterina la Grande nella seconda metà del Settecento.
Caterina II di Russia, nota per il suo spirito illuminato e i suoi gusti raffinati, si dice apprezzasse molto le robuste stout britanniche.
In quegli anni le birre scure inglesi – porter e stout – godevano di fama internazionale, e alcune botti giunsero fino a San Pietroburgo come dono diplomatico.
Tuttavia, come nel caso dell’India Pale Ale, il viaggio lungo e freddo tra Londra e la Russia imperiale rischiava di compromettere la qualità della birra.
Così un birrificio londinese (tradizionalmente si cita la Thrale’s Brewery, poi divenuta Barclay Perkins) decise di produrre per la corte russa una versione appositamente potenziata della propria stout: elevò considerevolmente il grado alcolico e la quantità di luppolo, in modo che la birra reggesse sia il trasporto via mare sia il rigido clima del Baltico.
Nacque così la “Russian Imperial Stout”, una stout imperiale russa: scurissima, densa, di elevato tenore alcolico (8-10% vol o più) e ricca di luppolo per la conservazione.
La zarina, secondo la leggenda, ne rimase entusiasta – tanto da ordinarne forniture regolari.
La Imperial Stout divenne quindi la birra di corte a San Pietroburgo, bevuta nelle sale dorate del Palazzo d’Inverno durante i ricevimenti, come contraltare nordico allo champagne francese.
Storicamente sappiamo che birre del genere vennero effettivamente esportate in Russia: ad esempio la Courage Brewery produsse la sua famosa Imperial Russian Stout già dal 1796.
La presenza di Caterina la Grande nella storia è forse romanzata (lei morì nel 1796, proprio quando queste stout iniziavano a circolare, quindi al massimo le assaggiò verso fine regno), ma in generale la narrazione regge: l’impero russo divenne un mercato prestigioso per certe birre inglesi di altissima gradazione, e i birrai britannici sfruttarono l’opportunità creando un prodotto ad hoc.
Oggi, quando degustiamo una bottiglia di stout imperiale – magari davanti a un caminetto, data la potenza alcolica – possiamo evocare con l’immaginazione quelle serate pietroburghesi, con dame e nobili che sorseggiano questo nettare scuro e intenso proveniente da lontano.
L’aggettivo “imperial” che ancora utilizziamo per le stout (e per altri stili portati a gradazioni extra, come le Imperial IPA) nasce proprio da qui, dalla corte degli imperatori russi.
Per saperne di più su ricette e origini di questa birra regale potete consultare l’approfondimento sulla birra Imperial Stout, ma intanto il racconto rimane: una birra tanto robusta e longeva da conquistare persino gli zar.
L’oro di Plzeň: la nascita della Pilsner
Infine, tra le leggende sulle origini degli stili non può mancare la Pilsner, la birra chiara per eccellenza.
Questa volta siamo a metà Ottocento, in Boemia (attuale Repubblica Ceca), nella cittadina di Plzeň (Pilsen in tedesco).
Prima del 1840, la stragrande maggioranza delle birre era scura o ambrata, spesso torbida, e le tecniche di fermentazione a bassa temperatura stavano appena prendendo piede.
La storia – reale, ma ammantata di aneddoto – racconta che nel 1838 i cittadini di Pilsen, stufi della scarsa qualità della birra locale (all’epoca ancora di stile ale, ad alta fermentazione, e spesso di sapore instabile), inscenarono una clamorosa protesta: rovesciarono in piazza interi barili di birra cattiva davanti al municipio, per denunciare la situazione.
Colpiti da questo gesto, i notabili decisero di fondare un birrificio moderno ispirato alle tecniche bavaresi, per produrre una birra migliore.
Fu così che nel 1842 la città assunse un mastro birraio bavarese, Josef Groll, esperto di lager a bassa fermentazione.
Groll unì tre elementi innovativi: malto d’orzo chiaro (appena sviluppato con nuovi metodi di maltazione che evitavano una tostatura eccessiva), luppolo Saaz profumatissimo coltivato in Boemia e acqua locale eccezionalmente dolce.
Il risultato, presentato il 5 ottobre 1842, fu sbalorditivo: una birra dorata limpidissima, con schiuma candida, dal gusto fresco e luppolato.
Era nata la Pilsner (dal nome della città, Pilsen).
La leggenda vuole che gli abitanti rimasero a bocca aperta – letteralmente e metaforicamente – davanti a quel nuovo oro liquido.
In breve tempo la fama della Pilsner Urquell (“pilsner originale”) dilagò in Europa, rivoluzionando il panorama birrario: tutti volevano bere birre chiare come quella.
L’avvento della birra di Plzeň segnò anche la distinzione che ancora oggi usiamo tra birre chiare e scure – un concetto che prima era meno rilevante, dato che quasi tutte erano scure.
La bionda moderna era nata e avrebbe dominato il mondo.
Un dettaglio spesso narrato è che Josef Groll, uomo burbero, rientrò in Baviera poco dopo aver creato la Pilsner, forse per dissapori, e morì il 22 ottobre 1887 mentre, ironia della sorte, stava bevendo una birra (si dice fosse proprio una Pilsner) con gli amici.
La rivoluzione Pilsner è uno di quegli eventi dove storia e leggenda popolare coincidono abbastanza: l’episodio dei barili distrutti in piazza è documentato, così come la data della prima cotta di Groll.
Ciò che il mito aggiunge è il senso quasi epico di “rinascita” birraria: da una crisi (la birra cattiva buttata via) sorge una nuova era brillante, simboleggiata dal colore dorato della Pilsner.
Ogni volta che versiamo una lager chiara nel bicchiere e osserviamo la sua trasparenza cristallina, stiamo in qualche modo rendendo omaggio a quel momento.
Vale la pena ricordare che la distinzione tra birra chiara e scura – oggi così comune – nacque proprio allora: prima si parlava di birre per stile o per fermentazione, ma la Pilsner rese popolare la classificazione cromatica.
Se siete curiosi di conoscere meglio come la Pils abbia influenzato la storia e quali siano le sue caratteristiche tecniche, potete leggere la nostra guida sulla birra Pils, dove troverete anche cenni agli sviluppi successivi (come le diverse Pils tedesche, ceche, ecc.).
È interessante notare che la distinzione di colore portò anche a convinzioni comuni, ad esempio l’idea che una birra scura fosse più forte o calorica di una chiara – ma come vedremo tra poco, si tratta spesso di un pregiudizio (per approfondimenti al riguardo, ecco una guida completa alla differenza tra birra scura e chiara).
In ogni caso, la nascita della Pilsner rimane uno dei capitoli più affascinanti delle leggende birrarie: un cambiamento epocale raccontato come una fiaba a lieto fine, dove alla fine splende un boccale dorato colmo della nuova, meravigliosa birra.
Come abbiamo visto, molte delle birre che amiamo hanno una storia alle spalle degna di un romanzo.
Queste leggende sulle origini degli stili non solo intrattengono, ma spesso aiutano a ricordare informazioni utili: perché una IPA è così luppolata? Perché una Imperial Stout è così alcolica? Basta pensare alle loro storie di nascita per intuirlo.
Tra realtà documentata e abbellimenti aneddotici, tali racconti rendono la degustazione più consapevole e divertente.
E la prossima volta che stapperete una birra artigianale, potrete magari stupire gli amici narrando di come dietro quella ricetta ci siano viaggi oceanici, imperatori assetati o mastri birrai ribelli.
La cultura birraria è fatta anche di questo: memoria collettiva e fantasia, tramandate di boccale in boccale.
Miti e leggende moderne sulla birra
Le leggende e i miti attorno alla birra non appartengono solo al passato remoto: anche in tempi recenti e attuali persistono credenze popolari, aneddoti da pub e semi-verità che circolano tra gli appassionati.
Alcune di queste leggende moderne sono affermazioni generiche sul mondo della birra, altre riguardano gli effetti sul corpo, altre ancora contrappongono stili e modalità di servizio.
In questa sezione passeremo in rassegna alcuni dei miti più diffusi oggi, cercando di capire quanta verità vi sia in essi e sfatando eventuali idee sbagliate.
Il bello delle leggende metropolitane, infatti, è discuterle davanti a una pinta, con spirito critico ma anche con il gusto del racconto.
“Nel Medioevo bevevano solo birra perché l’acqua era imbevibile.”
Questa frase si sente ripetere spesso nelle conversazioni e, in parte, l’abbiamo già toccata parlando di Sant’Arnoldo.
Si tratta però di un’affermazione da prendere con cautela.
È vero che in molti centri urbani medievali l’acqua poteva essere contaminata e che la birra (o il vino) erano alternative più sicure, grazie al processo di bollitura e fermentazione che uccideva gran parte dei patogeni.
Tuttavia, l’idea che la gente bevesse solo birra è esagerata: nelle campagne l’acqua di fonte pulita veniva bevuta eccome, e la birra stessa – specie se di buona qualità – non era disponibile in quantità illimitate per tutti.
Inoltre la birra dell’epoca era spesso di gradazione molto bassa (la cosiddetta small beer inglese aveva 2-3% di alcol), proprio per poter essere consumata come fonte di liquidi quotidiana senza ubriacarsi.
Quindi, più che una leggenda falsa, questa è una semplificazione: la birra ha aiutato le popolazioni antiche a evitare malattie idriche, ma non ha sostituito completamente l’acqua.
Oggi per fortuna abbiamo acqua potabile sicura, e la birra la beviamo per piacere, non per necessità.
A tal proposito, giova ricordare che attualmente il consumo di birra in Italia è in costante aumento per motivi culturali e di gusto, non certo per mancanza di acqua: la birra è tornata a essere quella bevanda di socialità e di scoperta di sapori che dev’essere, liberata dal ruolo di “acqua sicura” che ebbe in passato.
“La birra fa venire la pancia.”
Quante volte abbiamo sentito parlare di “pancetta da birra” o visto uomini di mezza età con il classico ventre prominente scherzare sul loro troppo amore per la bionda? Questo è un mito moderno tra i più radicati: l’idea che la birra sia estremamente calorica e faccia ingrassare in modo particolare sull’addome.
Come tutte le leggende, contiene un fondo di verità ma anche molta esagerazione.
In realtà la birra, rispetto a molte bevande alcoliche, ha un contenuto calorico moderato: un bicchiere da 0,2 L di birra lager standard (~5% alc) apporta circa 80-90 kcal, meno di un succo di frutta o di una cola.
Certo, quantità maggiori portano più calorie, ma il punto è un altro: è lo stile di vita complessivo e l’eccesso calorico globale a far accumulare grasso addominale, non la singola bevanda in sé.
Spesso chi consuma molta birra lo fa accompagnandola con cibi grassi (snack, salumi, fritti) e in generale potrebbe avere abitudini alimentari sedentarie; la combinazione di fattori porta all’aumento di peso.
Non c’è un ingrediente magico nella birra che crei la “pancia” specifica: è semplicemente grasso corporeo come un altro, accumulato quando si assumono più calorie di quante se ne brucino.
D’altro canto, la birra stimola l’appetito e contiene alcol (7 kcal per grammo), quindi certamente può contribuire al bilancio calorico.
Ma berne con moderazione, nel contesto di una dieta equilibrata, non provocherà alcuna “pancia” inevitabile.
Anzi, studi recenti suggeriscono che un consumo moderato di birra artigianale, ricca di polifenoli, non incide negativamente sul peso e può avere effetti simil-benefici come il vino rosso (sempre in piccole dosi).
Dunque, la pancetta da birra è più un luogo comune che una condanna inevitabile.
Se volete approfondire il tema delle calorie della birra e il rapporto con dieta e metabolismo, vi invitiamo a leggere il nostro articolo “La birra fa ingrassare?, dove troverete dati nutrizionali e consigli pratici per godervi una pinta senza sensi di colpa.
In sintesi: la birra di per sé non fa ingrassare, se consumata responsabilmente; il segreto è sempre nell’equilibrio (e magari in un po’ di esercizio fisico per smaltire quel boccale in più!).
“Le birre scure sono più forti di quelle chiare.”
Ecco un’altra credenza diffusa: molti pensano che una birra scura (come una stout, una doppelbock, o una ale ambrata) debba essere per forza più alcolica, pesante o calorica di una chiara (come una pilsner, una helles, o una blanche).
In realtà il colore di una birra dipende essenzialmente dal tipo di malto usato (tostatura e caramellizzazione dei grani) e non è direttamente correlato alla gradazione alcolica o al corpo.
Esistono birre scurissime ma leggere in alcol (si pensi a certe stout irlandesi tipo Guinness Draught, solo 4,2% alc) ed esistono birre chiarissime ma molto forti (ad esempio alcune tripel belghe color oro da 9% alc, o certe IPA chiare sopra 7%).
L’errore nasce dal fatto che molte birre scure famose sono effettivamente robuste (una stout imperiale, una barley wine sono scure e forti), ma non è una regola generale.
Il malto scuro conferisce aromi di tostato, caffè, cioccolato, caramello, ma non necessariamente più zuccheri fermentati.
Una lager scura (dunkel) può avere lo stesso grado alcolico di una lager chiara, differenziandosi solo per il gusto.
Allo stesso modo, la sensazione di “pesantezza” spesso è psicologica: vedendo un colore nero, ci aspettiamo qualcosa di denso, ma una stout nitro può essere scorrevole e meno calorica di una IPA bionda molto luppolata (il luppolo stimola la produzione di succhi gastrici e può dare un senso di pienezza maggiore!).
Insomma, il colore non è un indicatore affidabile della forza di una birra.
Meglio guardare la gradazione alcolica sull’etichetta e lo stile dichiarato.
Ad ogni modo, per chi volesse chiarire ogni dubbio sulle differenze organolettiche e produttive tra birre chiare e scure, rimandiamo alla nostra guida sulle differenze tra birra scura e chiara, dove troverete spiegazioni su IBU, EBC (l’unità di colore) e altri parametri che definiscono una birra al di là del suo aspetto visivo.
In conclusione, non lasciatevi ingannare dall’abito: una birra color ebano potrebbe sorprendervi per leggerezza, così come una dorata innocente potrebbe stendervi dopo due pinte!
“La birra non filtrata è migliore di quella filtrata.”
Nel mondo attuale della birra artigianale è comune imbattersi in produzioni non filtrate o non pastorizzate esibite quasi come marchio di qualità.
Da qui nasce il mito che una birra “cruda” e velata sia necessariamente più autentica e buona rispetto a una limpida e filtrata.
In realtà, filtrazione e pastorizzazione sono tecniche di stabilizzazione che, se da un lato possono attenuare leggermente alcuni aromi, dall’altro prolungano la vita della birra e ne garantiscono la costanza.
Dire che una sia migliore in assoluto è fuorviante: dipende dallo stile e dall’obiettivo.
Alcune birre sono tradizionalmente servite torbide (weizen, certain ale farmhouse) e beneficiano dei lieviti in sospensione per il loro gusto caratteristico.
Altre, come pils e lager, nascono per essere cristalline e pulite nei sapori, e la filtrazione aiuta a ottenere quell’eleganza.
Una birra artigianale non filtrata con sedimenti può offrire un profilo aromatico più rustico e complesso, ma anche sviluppare note sgradevoli se conservata male.
D’altra parte, l’assenza di filtrazione mantiene vivi i lieviti, contribuendo a un’evoluzione della birra in bottiglia nel tempo (come avviene per le bottle conditioned ales).
Insomma, più che di qualità, si tratta di stile e di scelte del birraio.
L’importante è non generalizzare: esistono birre industriali non filtrate che non hanno particolare pregio, ed esistono birre artigianali filtrate eccellenti.
Il consumatore informato dovrebbe valutare la birra nel complesso, senza pregiudizi “ideologici” sul filtraggio.
Per approfondire questo tema consigliamo la lettura dell’articolo “Differenza tra birra filtrata e birra non filtrata dove spieghiamo i pro e i contro di entrambe le pratiche e sfatiamo l’idea che filtrato = artificiale e non filtrato = genuino.
La vera qualità artigianale si misura dalla cura negli ingredienti e nel processo, non solo dalla scelta di filtrare o meno.
“La birra alla spina è sempre migliore di quella in bottiglia.”
Questa è un’affermazione che spesso divide gli appassionati.
Da una parte c’è chi giura che la birra alla spina (spillata dal fusto al pub) abbia un sapore insuperabile, più fresco e autentico, dall’altra c’è chi nota come molte birre in bottiglia (o lattina) possano essere eccellenti.
Dov’è la verità? Anche qui, dipende.
La birra alla spina ha sicuramente dei vantaggi: i fusti sono generalmente conservati al fresco e al riparo dalla luce, la spillatura arricchisce la birra di una piacevole carbonazione e consente di servire la giusta quantità di schiuma, inoltre spesso le birre più fresche e nuove arrivano prima in fusto.
Tuttavia, la qualità della spina dipende dalla pulizia degli impianti, dalla competenza del publican e dalla rapidità di rotazione dei fusti: una spina trascurata può rovinare una birra, conferendole sapori sgradevoli (ad esempio, linee sporche possono dare sentori acidi o di cartone).
D’altro canto, la birra in bottiglia viene imbottigliata all’origine e, se ben conservata, mantiene intatte le caratteristiche volute dal birraio.
Alcune birre artigianali subiscono rifermentazione in bottiglia, acquisendo complessità; altre sono pensate per maturare nel vetro come vini da invecchiamento.
La bottiglia protegge dall’ossigeno, ma non dalla luce (a meno che sia scura) e teme le alte temperature di stoccaggio.
Negli ultimi anni, le lattine stanno prendendo piede nell’artigianale proprio perché proteggono totalmente dalla luce e tengono fuori l’ossigeno, garantendo spesso una freschezza superiore persino alla bottiglia.
Dunque, dire cosa è “meglio” in assoluto è impossibile.
Una cosa però è certa: bere una birra ben spillata al pub, magari in buona compagnia, regala un piacere difficilmente replicabile a casa.
Allo stesso modo, poter gustare a casa una birra particolare, magari edizione limitata in bottiglia, con calma e al giusto servizio di bicchiere, ha il suo fascino.
La bravura sta nel saper scegliere in base alle situazioni: se al pub vedete che una birra esce pochissimo, forse è meglio optare per qualcosa di più “giro veloce” (per avere un fusto fresco), mentre se acquistate birra da asporto assicuratevi della corretta conservazione.
Nel nostro articolo “Meglio la birra in bottiglia o alla spina? approfondiamo proprio questi aspetti, con consigli su come ottenere il meglio da entrambi i formati.
Il mito che la spina sia sempre migliore va quindi ridimensionato: spesso è così, ma solo se l’impianto è all’altezza; in altre circostanze, una buona bottiglia ben tenuta può regalare maggiore soddisfazione.
Altri miti contemporanei: Ce ne sarebbero molti altri da elencare, segno che la cultura della birra è viva e dibattuta.
Ad esempio: “La birra doppio malto è più forte” – in Italia esiste la categoria “doppio malto” per legge, ma indica solo una gradazione fiscale, non un vero stile né garantisce che sia la più alcolica (ci sono “doppio malto” di 6% e birre non doppio malto ben più forti).
Oppure “La schiuma va azzerata perché riempie” – falso, la schiuma è importante per liberare l’anidride carbonica in eccesso e sprigionare aromi; una birra senza schiuma risulta piatta e spesso più gassata nello stomaco.
O ancora “Le birre artigianali non danno mal di testa perché non pastorizzate” – anche qui, il mal di testa dipende principalmente dall’alcol e dalla disidratazione, non dalla pastorizzazione (anche se alcuni sostengono che certi additivi delle industriali possano influire, ma non ci sono prove solide).
Come vedete, molte di queste frasi fatte contengono un briciolo di verità mescolato a una dose di semplificazione.
Il nostro consiglio è di godersi la birra con mente aperta e curiosa, verificando di persona cosa c’è di vero.
E se avete dubbi o volete sfatare altre dicerie, il nostro blog è a disposizione per approfondire ogni aspetto di questa amata bevanda.
In fondo, discutere di birra fa parte del piacere di berla!
Conclusioni
Siamo giunti al termine di questo viaggio tra leggende sulla birra, miti brassicoli e curiosità storiche.
Abbiamo scoperto come, sin dall’antichità, la birra sia stata molto più di una semplice bevanda: è stata dono divino, moneta di scambio, medicina popolare, ispirazione per santi e peccatori, pretesto per racconti fantastici e fulcro di momenti di convivialità indimenticabili.
Dalle divinità sumere ed egizie che condividevano con l’umanità il segreto della fermentazione, ai monaci medievali che affinavano l’arte brassicola protetti dalle mura dei conventi, fino ai birrai innovatori che hanno creato stili leggendari come l’IPA o la Pilsner, ogni epoca ha lasciato in eredità storie affascinanti legate alla birra.
Anche oggi, nel pieno revival della birra artigianale, continuiamo ad arricchire questo patrimonio di narrazioni: pensiamo ai microbirrifici che riscoprono antiche ricette, o ai tanti appassionati che nei festival e nei pub amano rievocare aneddoti e mystère legati alla pinta che hanno in mano.
Conoscere queste leggende rende ogni sorso più significativo.
Quando gustiamo una stout scura, possiamo ricordare la storia di Caterina la Grande e immaginare di brindare alla sua corte.
Quando assaporiamo una fresca lager dorata, possiamo rievocare l’entusiasmo dei cittadini di Plzeň nel veder nascere la prima Pilsner cristallina.
E perfino nelle chiacchiere da bar di oggi – discutendo se la birra faccia ingrassare o se la spina batta la bottiglia – possiamo riconoscere l’eco di un’antica tradizione di racconti attorno alla birra, dove un fondo di verità si mischia al gusto dell’esagerazione per amore della conversazione.
In fin dei conti, la birra è anche questo: uno stimolo alla socialità, alla condivisione di storie e conoscenze.
Che siate studiosi di storia, beer sommelier in erba o semplici curiosi con il boccale facile, speriamo che questo percorso tra miti e realtà vi abbia intrattenuto e arricchito.
Le leggende qui narrate ci insegnano ad apprezzare la birra non solo con il palato, ma anche con la mente e il cuore, riconoscendo in essa un filo conduttore che attraversa la storia umana.
D’ora in poi, dietro la schiuma del vostro prossimo calice, potrete scorgere il sorriso di Gambrinus, l’occhiolino complice di una strega birraia o la benedizione silenziosa di Sant’Arnoldo – compagni ideali di bevuta, se non altro nello spirito.
Buon brindisi dunque, e che queste storie continuino a tramandarsi di generazione in generazione! E se questa lettura vi ha messo sete di conoscenza (e magari anche di birra), sappiate che l’universo brassicolo è sterminato e sempre in evoluzione.
Continuate a esplorarlo con noi attraverso gli altri articoli del blog e le nostre guide tematiche.
Nel frattempo, potete mettere in pratica quanto appreso degustando in maniera più consapevole le vostre birre preferite.
E se desiderate provare nuove etichette e stili dopo aver letto di monaci trappisti e birre imperiali, vi interesserà sapere dove comprare birra online in sicurezza e qualità: esistono ottimi shop specializzati (come il nostro) che permettono di ricevere a casa birre artigianali da tutto il mondo, per proseguire il vostro viaggio di scoperta direttamente dal divano di casa.
Ogni bottiglia potrà essere l’occasione per rivivere un frammento delle leggende che abbiamo raccontato.
In conclusione, la birra è una bevanda che unisce passato e presente, realtà e immaginario.
Brindare con una birra artigianale significa anche assaporare un po’ di storia e di mito in ogni sorso.
Che sia la coppa schiumante degli dèi, il boccale di un re medievale o la pinta al bancone del pub sotto casa, la birra continua ad affascinarci con i suoi misteri e le sue storie.
E come ogni buona storia, anche quella della birra non finisce qui: nuove leggende nascono e nasceranno, man mano che l’uomo continuerà a creare, innovare e – soprattutto – a condividere la sua passione per questa antica, meravigliosa bevanda.
Cin cin!